Trasformiamo il Retail?

LE ESIGENZE DEL RETAIL MUTANO VELOCEMENTE TRA PHYGITAL, OMNICANALITÀ E PERSONALIZZAZIONE.

Trasformare l’esperienza retail perché lo chiede il mercato, perché dobbiamo essere competitivi in un mondo sempre più complesso, dove anche il minimo dettaglio conta quando tutto è sotto pressione e diventa complesso da gestire. Trasformare tutto per continuare a fare quello che vogliamo fare nel modo migliore possibile: vendere. Ma, in realtà, tutto davvero si trasforma? A ‘livello strada’ si investe per cambiare? Ma ai clienti davvero interessa qualcosa? Quasi certamente leggerete questo articolo alla fine di un’estate calda come non mai, sotto ogni punto di vista, tra cui il clima. Le tensioni che stiamo sperimentando ci impongono di riflettere, di capire meglio. Breve viaggio tra le informazioni in nostro possesso, e magari perché no, un paio di esempi concreti di che cosa è, oggi, il significato del ‘trasformiamo il retail’.

Intanto si investe? Parliamo di Italia. Uno studio – recente – ci dice che solo il 22% dei brand italiani ha investito nel digitale in modo da assorbire in maniera produttiva le nuove richieste di ‘consumo’, e quindi va da sé che molte aziende, la quasi totalità (95%) dichiara di voler investire o continuare ad investire verso la digitalizzazione. Di che cosa in particolare non è dato sapere, ma si investe, con una previsione di circa 184 miliardi di euro aggiunti al nostro PIL per l’anno in corso. Una cifra ragguardevole, su carta. Certo, rimane quella grande voce – l’omnicanalità – che sembra scatenare interessi e successi: quasi tre quarti delle aziende che hanno investito in organizzazione dell’esperienza tra online e offline (omnicanale) vanta crescite intorno al 20% del proprio fatturato. Una pioggia di dati, ma abbiate pazienza, ci arriviamo. Ne aggiungo qualche altro: più del 60% dei consumatori italiani preferisce fare shopping presso i negozi fisici se questi hanno implementato delle soluzioni tecnologiche per aumentare o migliorare il processo di acquisto, inclusi i pagamenti unificati su piattaforme diverse.

Il mondo è ‘phygital’, con buona pace per l’Accademia della Crusca. Non sono certo che i consumatori sappiano il significato della sincrasi in questione, ma poco importa, fisico e digitale si uniscono. Che poi a una ‘faccia’ super-moderna e cool, il retailer in questione abbia dei sistemi di backend – il ‘dietro le quinte’ – ancora obsoleti e non allineati con la nuova velocità che si vuol prendere, anche questo poco importa in un mondo che deve parlare la lingua phygital. Ecco. La velocità. Forse questo ci porta verso un’idea, un focus interessante. Vi ricordate il tempo lontano in cui, per guidare un’auto, avevi bisogno di quel minimo di destrezza per muoverti agevolmente tra frizione e acceleratore, quella danza precisa dei piedi, con dei tempi definiti dalla meccanica e dalla tua capacità, per arrivare a muoverti come volevi, quando volevi e con la velocità che volevi? Quando tutto non era automatico? Che cosa serviva fare prima di accelerare? Buttata lì, la frizione doveva staccare, per nostro comodo la frizione doveva essere ‘eliminata’ prima di buttarsi ferocemente (più o meno…) sul pedale del gas e accelerare.

Forse, dico forse, questo dovrebbe essere uno (sciocco) richiamo a cosa fare inizialmente con questi miliardi dedicati alla digitalizzazione dell’esperienza retail. Capire dove è la frizione, ‘premerla’ per eliminarla. Eliminare la frizione dall’equazione, cancellare la frizione dal processo retail – ciascuno a suo modo e per tipologia di cliente – e dopo, solo dopo pensare a come ‘accelerare’. Da non dimenticare, si fa tutto per ingraziarsi il cliente – attuale o prospettico – perché compri, lo faccia felice di farlo, lo racconti spontaneamente e diventi un nostro ambasciatore. Il tutto al miglior rapporto costo/beneficio.

Quindi, credo, se elimino le frizioni nel processo d’acquisto – ammesso che le veda – il cliente compra contento, parla e sparla di quanto è stato bello – o perlomeno non ci fa una recensione negativa – e se sono capace di ingraziarmelo anche nel post-vendita ci sta che si fidelizzi. Anche in un mondo con scarso livello d’attenzione e ‘fedeltà’ al marchio. Via, un dato, ancora, a supporto: il 70% dei consumatori sostiene che non farà più un acquisto presso un retailer che ha regalato un’esperienza negativa, online o offline che sia – una percentuale interessante, ancor di più se calcolate il vostro costo di acquisizione cliente e poi ne buttate il 70%. 

Chiaramente, pensare a trovare le frizioni ed eliminarle sembra ripagare. Zara fin dal 2018 in alcuni dei suoi store – perché i clienti mica sono tutti uguali – ha implementato soluzioni che integrano per cliente quanto avvenuto ‘online’ (ricerche ed acquisti) e volendo il personale in negozio può avere questo storico per guidare al meglio lo shopping fisico, così come sono presenti punti di ‘raccolta’ (BOPIS – Buy Online Pick Up In Store – si compra online per andare a prendere nel negozio) degli acquisti fatti online (basta un QR code) con l’ovvio vantaggio di provare e controllare se è tutto a posto, cambiare se necessario, integrare con quell’accessorio “già che ci sono” e massimizzare quindi l’esperienza, lasciando dietro di sé informazioni preziose. Tanto il 54% degli intervistati non è preoccupato della privacy se i dati vengono usati per migliorare gli acquisti. Frizione: forse il tempo, dedicato online e massimizzato nel negozio, la velocità dell’acquisto mirato. Recuperare tempo è il grande lusso del XXI secolo. Devi essere Nike e avere un super-store per far provare in un campo da basket interno la resa delle scarpe che tanto piacciono ma non si sa se ti trasformano in un altro Jordan (non credo, ma sognare costa relativamente poco anche in Nike…). Frizione: incognita prezzo-performance? Forse. Forse la frizione è ‘processo impersonale in un mondo sempre più a misura del singolo’ e quindi si cerca di ridurla, personalizzazione e ‘clienteling’ – stabilire relazioni a lungo termine con i clienti sulla base di dati sulle loro preferenze, comportamenti e acquisti – al massimo livello possibile. I consumatori bramano esperienze, in tutti i punti di contatto con un marchio, tutto conta, tutto serve. La realtà aumentata (AR) vince contro un’esperienza multimediale tradizionale e “piatta” che crea un tasso di coinvolgimento dell’1,6%, rispetto a oltre il 50% di uno abilitato all’AR. Nella parte più bassa del funnel di marketing, è più probabile che i consumatori effettuino transazioni dopo aver interagito con un’esperienza AR, secondo Camera IQ. La sua ricerca ha rilevato che i tassi di conversione per le attivazioni AR hanno raggiunto il 12%, ovvero più di tre volte il 3,5% per i contenuti di foto e video.

Queste esperienze possono essere più intime per i consumatori perché vengono fornite tramite i loro smartphone e sono spesso legate all’ambiente fisico degli utenti. Perché, in realtà, anche fisico è bello. Aziende statunitensi come Stitch Fix, Wantable e Trunk Club hanno tentato di massimizzare il rapporto online-offline assumendo professionisti che potessero scegliere i vestiti per i clienti (una sorta di personal shopper in-shop) sulla base dei parametri definiti dall’utente o recuperati via IA – Intelligenza Artificiale – con sistemi di sizing automatici. C’è da dire, per correttezza di informazione, che pare che l’IA non fosse così intelligente a suo tempo e desse una visione troppo restrittiva del ‘che cosa è buono per te’, non migliorando granché l’esperienza utente. Anche se la tecnologia viene visto come il touchpoint definitivo per quanto riguarda l’esperienza utente e – ovvio – un supporto alla creazione di business plan sostenibile, la realtà invita si a ottimismo, ma cauto e ragionato. Amazon ha iniziato adesso a testare in California un negozio di abbigliamento che integra l’esperienza fisica dell’acquisto con le sue capacità di disegno degli algoritmi lato utente, la logistica (i capi arrivano in camerino come richiesti) e il servizio clienti (“Ti metteresti questo outfit o vuoi cambiare qualcosa?” ti chiede uno specchio virtuale). Il tutto però servito da una coorte di personale dedicato. Ma è una prova. Il negozio ‘costa’ tantissimo per l’area deposito che ha, i tempi di acquisto pare siano lunghi anche se il negozio non è al massimo della capienza, insomma, c’è chi si può permettere di spendere tanto per capire come il mercato reagisce. 

Ma noi che non siamo Amazon, come possiamo comportarci? Quando possiamo spingere sull’acceleratore che tanto la frizione ormai è stata mollata e non dà più fastidio? Intanto dobbiamo capire dove sta la frizione. In un lavoro recente ho affrontato alcune trasformazioni a livello retail e una delle aree più d’interesse è stata la modifica necessaria alle modalità di pagamento per farle diventare ‘esperienziali’ e proprietarie del cliente. Tra scanner di prodotti con IA per il riconoscimento degli acquisti e messaggi personalizzati, il cliente ‘gioca’ con un momento fastidioso in generale, il problema è stato trovare un designer che trasformasse un oggetto altamente tecnologico anche come immagine in un qualcosa che portasse in sé la brand personality del cliente, che fosse parte integrante dell’obiettivo ultimo: esperienza. Non acquisto, esperienza. Man mano che le aziende si avvalgono di maggiori opportunità tecnologiche e digitali, cercheranno l’iper personalizzazione delle esperienze per aumentare la fedeltà dei clienti. Gli acquirenti hanno imparato ad aspettarsi un servizio curato e personalizzato in altri settori grazie a giocatori come Netflix e Spotify, che sfruttano l’IA per fornire esperienze specifiche per i gusti e le esigenze dei singoli clienti. Tutto molto interessante, ma c’è un problema, in tutto questo. Forse la frizione ultima è legata al senso del bello, all’estetica, al piacere. La tecnologia deve essere tanto bella quanto l’oggetto che intende vendere. Altrimenti che gusto c’è? Il piede è ancora sulla frizione.

Alessandro Lorenzelli

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