Arrenditi e ti dirò chi sei.

Uno degli aspetti più sottovalutati nel processo di potenziamento personale è quello della demotivazione.

Se già mille volte abbiamo scritto che la motivazione è una “brutta bestia”, nel senso che è uno di quei parametri personali più difficili da definire, da controllare e da governare, è altrettanto vero che l’altra faccia della medaglia, la demotivazione, è in grado di creare problemi di enorme portata a un team di lavoro o a un’attività commerciale intera.

Mi torna in mente il vecchio adagio della nonna sulla pericolosità di una mela marcia all’interno di un cesto di mele sane… Purtroppo, oggi è molto facile trovare un addetto, un banconista o un dipendente (di una qualsiasi attività) de-motivato, rispetto a uno molto motivato.

Sui perché di questo fenomeno potremmo riflettere insieme per giorni e giorni e penso potrebbe essere un valido esercizio. Tuttavia, a un ottico oggi interessa trovare velocemente risorse umane all’altezza, selezionare le migliori, inserirle nel giusto modo in un gruppo già assodato, formarle a dovere e saperle motivare costantemente.

Un bel programmino, non c’è che dire. Peccato che sia sufficiente sbagliare uno di questi step per inficiare il processo intero. Troppe poche volte si pensa ai danni che un addetto alle vendite o al bancone può creare se lavora in fase di demotivazione. L’impatto sui clienti che un volto corrucciato o due braccia incrociate hanno è stato più volte analizzato da noi in questa rubrica.

Ma ciò che spesso il datore di lavoro sottovaluta è l’incredibile perdita di fatturato e di clienti che un uomo o una donna demotivati possono arrecare all’impresa. Per capirci meglio, vi ho portato come spesso faccio un altro esempio che, come sempre, è tratto dall’esperienza personale del mio essere contemporaneamente consumatore e formatore.

A luglio 2021 ho pranzato in un posto paradisiaco, in Liguria, all’interno di una sorta di villaggio, con piscina, giardino, campo da tennis ecc. Era presente anche un ristorantino, di per sé per nulla ambizioso, ma che gode della vista sul mare, immerso in un giardino ben curato e ricco a livello floreale.

Insomma, la classica situazione in cui se servi anche una milanese fatta così così, il cliente si dirà soddisfatto comunque. Bene, l’impatto è stato disastroso: ero con una coppia di amici e con il padrone di casa che abita in quel luogo sublime. Ci avviciniamo a uno dei 3 tavoli vuoti e non apparecchiati, intorno a cui c’erano 3 sedie. Noi eravamo in 4.

Ci viene incontro strisciando i piedi e con una mezza smorfia iniziale una ragazzotta, circa sui 20 anni, che si tira sù con una mano il ciuffo dei capelli con lo stesso stile con cui un cowboy si soffia il ciuffo sudato, una volta tolto il cappello impolverato. Va beh, penso, sarà stanca… Le chiediamo se possiamo sederci nel tavolo, ci guarda, getta un’occhiata intorno e ci dice: eh ma ci sono solo 3 sedie.

Non ce l’ho fatta, sono scattato sulla destra, ho rubato una sedia all’altro tavolo vuoto e con evidente tono simpatico le ho detto: signorina, ha bisogno di un buon ottico lei! Ce ne sono 4, non vede? Tutti hanno riso, tranne lei – ovviamente – che non ha colto l’ironia. Ho pensato che avrei recuperato presto. Il pranzo è stato scadente, servito malissimo. C’era qualcosa che stonava in quella scenetta: un posto paradisiaco gestito peggio di una stalla qualsiasi. Che peccato.

Così decisi di approfondire, per non arrabbiarmi. Approcciai la ragazza in modo simpatico ma più amichevole, le chiesi che esperienze aveva fatto. Mi rispose che era appena uscita dall’alberghiero. Deglutii senza far percepire la mia delusione. Le chiesi se voleva una mano ad aprire la bottiglia di spumante, visto che era in evidente difficoltà e imbarazzo. Mi alzai per non farlo davanti agli altri e sottovoce le dissi: anche io ho fatto il cameriere a 19 anni, sai? Per due anni.

Mi divertii un sacco, ma scoprii un mestiere durissimo, vero? Lei abboccò. Le chiesi se le piaceva e mi disse sì poco convinta. Le chiesi come mai a scuola non le avevano insegnato ad aprire uno spumante e mi rispose che glielo avevano fatto vedere due volte, ma erano troppi per farglielo fare a tutti. Deglutii per la seconda volta. Secco, guardandola negli occhi, le chiesi: ti pagano bene qui? Lei abbassò gli occhi e disse: sì, per quello sì, ma la vita con quello là in cucina è impossibile.

Eccolo lì, in 2 minuti netti era emerso (e con uno sconosciuto) il nocciolo della totale demotivazione di quella ragazza. Lo chef probabilmente era la causa di tutto quello, sommata al fatto che il nervo della ragazza non fosse proprio di quelli siberiani. Le feci una battuta qualsiasi che la portò a sorridere, le dissi che lei era fortunata a lavorare in un posto così bello, sebbene con uno chef scorbutico, perché ci sono un sacco di camerieri che sono comandati da chef scorbutici ma che lavorano in posti orribili e puzzolenti.

Sorrise. Insomma, si sciolse e il servizio andò bene alla fine. Mi era rimasta, però, la curiosità di capire fino a che punto quella ragazza fosse demotivata. Così, quasi alla fine del pranzo, dopo aver condiviso le mie riflessioni comportamentali con gli amici, la chiamai e le chiesi se poteva cambiarmi un bicchiere del vino, perché mi ero accorto che era molto macchiato, come quasi tutti quelli presenti sulla tavola.

Lei disse: eh lo so, sì, è la lavatrice che è vecchia e lascia gli aloni. Lì, la pizzicai e le dissi: Raffaella, nei tuoi compiti c’è anche quello di ripassare con uno straccio pulito i calici, lo sai? Lei: eh ma non posso mica pulirli tutti ogni giorno. Di male in peggio, così presi un tovagliolo pulito e la sfidai: vieni, ti faccio vedere cosa mi insegnarono, un piccolo trucco per metterci meno. Presi il bicchiere incriminato, gli diedi due passate energiche e con un po’ di olio di gomito il bicchiere splendette. Le dissi: vedi, ci puoi mettere un attimo ora, non sta bene che rimangano le macchie, i clienti possono accorgersene!

La risposta mi diede l’idea di scrivervi queste righe: Eh, ho capito, ma – guardi – tanto qui vengono a mangiare sempre le stesse persone e loro ormai lo sanno. La chiamerò arrendevolezza demotivazionale e per intenderci non è altro che quel livello di demotivazione tale che porta una persona non solo a crearsi alibi per ogni situazione perdente che affronta, ma anche ad arrendersi, a non lottare più per un lavoro migliore, per un mondo migliore, per una vita migliore.

È uno stato mentale pericolosissimo, poiché porta a una demotivazione profonda, dalla quale è difficile riemergere. Si crea quando la situazione lavorativa demoralizzante perdura da tempo e ormai è entrata nel profondo del nostro io, diventando uno stato d’animo così fiacco da stimolare solo comportamenti fiacchi. E il cerchio si chiude. Chissà quanti di voi in questo momento stanno pensando alle situazioni di demotivazione che li hanno travolti in passato o di cui sono rimasti vittime nella propria carriera.

Ancora più interessanti le riflessioni di coloro di voi che sono titolari di un centro ottico: avevate mai ragionato a lungo sui danni emozionali e – di conseguenza comportamentali che una vostra battuta può creare nei confronti di uno dei vostri dipendenti o collaboratori? Lo sapete che per creare la motivazione ci vogliono giorni, settimane e mesi, mentre per demolirla basta un istante? Bisogna stare molto attenti a ciò che si dice agli altri e – come sa ormai bene chi mi segue – a come lo si dice. Ricordiamoci sempre che le persone sono animali, evoluti, ma animali. La vanità, l’amor proprio e l’egocentrismo sono alcune delle caratteristiche più radicate nell’essere umano.

La misura della permalosità di una persona ne comunica anche la fragilità. Volete motivare un uomo o una donna? Non seguite i consigli dei guru improvvisati che vi spingono a fare un complimento al giorno. Stucchevoli! No, giudicate i fatti di quella persona. E giudicateli positivamente, ma sinceramente. Paradossalmente, lo si capisce meglio al contrario, anche se quanto sto per scrivere non solo non mi piace, ma lo trovo eticamente brutale.

Volete indurre un lavoratore a licenziarsi dal negozio? Non fate l’errore di insultarlo, mettendovi dalla parte del torto. Demolite invece ciò che fa. Chiedetegli di dedicarsi anima e corpo a un progetto e dategli una data di consegna. A quella data, non considerate ciò che ha fatto, cacciate in un cassetto con sufficienza il progetto che vi ha appena consegnato e su cui ha lavorato probabilmente diverse ore fuori dal negozio.

Demolite ciò per cui uno si impegna e demolirete la sua anima. Lo demotiverete e vi farete un nemico. E – aggiungo – sarete una bruttissima persona! Evidentemente ogni processo di potenziamento porta con sé anche l’altro lato della medaglia. Se mi iscrivo a un corso di difesa personale e trascorro due serate intere a imparare a ricevere un calcio mentre sono a terra senza farmi troppo male, è evidente che dal giorno dopo un calcio lo so tirare e anche bene.

Ma non sarà colpa di quel corso se divento violento, mi capite? È un fatto etico, non è colpa della pistola se qualcuno ogni tanto muore con una pallottola, ma è colpa di chi la tiene in mano. E, per quanto brutale possa sembrare, è una fortuna che sia così, poiché questo comportamento decreta la nostra possibilità di far valere la volontà, quella volontà di ferro che spinge un atleta ad allenarsi per 4 anni sette ore al giorno per giungere alle Olimpiadi e sfidare i più bravi della terra nella propria disciplina. Voi lo fareste? 7 ore al giorno di massacro fisico, per 4 anni consecutivi, in palestra o in barca o su un campo.

Senza aperitivi, cene luculliane e stravizi… La motivazione è una delle armi più potenti a nostra disposizione. Il grande guaio è che – contrariamente a quanto dicono molte persone – dipende anche molto dagli altri e dall’ambiente in cui viviamo. Motivo in più per circondarsi di belle persone e vivere in ambienti sani. A buon ottico, poche parole.

COMUNICHIAMO AMICI, NON È MAI ABBASTANZA!

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Roberto Rasia Dal Polo

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