Andrea Zampol D’Ortia, ottico e imprenditore, trasforma la sua passione per l’arte in occhiali diventati vere opere creative.
Entrare quasi per caso nel mondo dell’ottica e trasformarlo in un percorso che unisce innovazione e cultura: questa è la storia di Andrea Zampol D’Ortia, ottico e imprenditore che ha saputo coniugare la precisione del mestiere con la libertà dell’arte. Dai primi negozi nella provincia di Belluno, Andrea Zampol D’Ortia ha ampliato la sua visione collaborando con artisti internazionali e dando vita a Moi Aussi, un progetto che trasforma occhiali e materiali in vere opere d’arte. Il progetto avrà presto come quartier generale l’Abbazia della Misericordia a Venezia. Una storia fatta di curiosità, coraggio e visione, dove il design si fonde con la creatività, dando forma a un percorso unico nel panorama dell’ottica contemporanea. Andrea è un personaggio poliedrico ma il suo percorso personale parte dal mondo dell’ottica, quasi per caso:

“Sono entrato nel mondo dell’ottica perché, onestamente, non avevo una direzione precisa! È stata mia madre a spingermi. Erano gli anni ’79-’80 e avevo frequentato il liceo scientifico. Ha presente quando sei una mina vagante, hai mille sogni, però vivi in un certo tipo di famiglia, con una certa impostazione… Mia madre mi disse: ‘Ma perché non provo ad aprire un negozio di ottica? Qui da noi non c’è un centro ottico’. A quei tempi vivevo – ora non più, anche se ho ancora lì uno store – in un paese della provincia di Belluno, Lentiai, ed effettivamente non c’era l’ottico! Il passo successivo fu l’iscrizione all’Istituto Superiore di Ottica e Optometria, a Vinci, in provincia di Firenze. Così iniziai il mio percorso in questo mondo. Poi mio padre e mia madre decisero di prendermi un piccolo punto vendita a Ponte nelle Alpi. Allora ero un ragazzino e l’idea dei miei è che avessi un’attività che mi permettesse di vivere sereno per tutta la vita. Da allora ho realizzato diverse attività legate al settore dell’occhiale, tra cui la distribuzione dei brand Mila Schön e Lancetti e l’entrata come socio nella Augusto Valentini Occhiali. Sono curioso e non potevo certo soffermarmi dentro ‘quattro mura’. Ho fatto mille cose: addirittura ho collaborato con cliniche, ho seguito il professor Franco Verzella a Bologna, il primo a occuparsi di cheratotomia radiale. Ho aperto altri punti vendita, poi ho collaborato con l’ILMO – Istituto Laser Microchirurgia Oculare a Brescia. Ho creato anche dei piccoli laboratori, ma sempre rischiando, perché questo sono io: voglio aprire porte con i catenacci chiusi. È la mia indole. Sono partito così, e piano piano ho aperto più punti vendita. Ho sempre affrontato questo mondo, al quale devo dire solamente ‘grazie’, con spregiudicatezza e tanta curiosità, quindi a 360 gradi”.
Attualmente la sua attività di ottico è passata alla seconda generazione della famiglia Zampol D’Ortia:
“Mio figlio Luca, del quale sono molto orgoglioso, ha preso le redini della società. Il suo curriculum scolastico è terminato con una laurea in tutt’altro settore (in lingue arabe per la precisione) e ha avuto parecchie esperienze all’estero – non nell’ottica; solo alla fine di questo percorso mi ha fatto la proposta. È bravissimo. È tornato a studiare e ha preso il mio posto. Ovviamente io gli sono accanto, perché un po’ di saggezza, un po’ di esperienza, i tanti errori mi aiutano a tracciare la via giusta. Adesso il mio contributo si concentra in questa direzione”.
La tradizione di famiglia rimane concentrata nel bellunese, specifica Zampol D’Ortia:
“Il negozio Ottica Optometria Zampol – il nostro cognome – è a Lentiai, una frazione del comune di Borgo Valbelluna, in provincia di Belluno. Prima avevo un centro ottico a Ponte nelle Alpi, ho avuto anche il centro ottico in Trentino e un centro di contattologia a Belluno…”.
Nella tradizione di famiglia c’è anche la passione e l’amore per l’arte, trasmessa ad Andrea da suo padre, specifica il nostro interlocutore:
“Da sempre mio padre ha dato a me e ai miei fratelli un’impostazione di carattere artistico. Era un piccolo collezionista: da bambini ci portava in giro per il mondo a visitare musei. Ricordo che già da piccolo mi lasciavano da un pittore nel paese: era famoso allora perché dipingeva le nevi. Io restavo lì, mi piaceva l’odore dei colori. Piano piano, con il passare degli anni, mio padre ha trasmesso a me – e penso anche ai miei fratelli, ma soprattutto a me – questa curiosità nei confronti dell’arte. Così, l’arte è stata sempre accanto a me, in maniera discreta, e gradualmente l’ho fatta entrare nella mia vita. E tutto è iniziato così. Di solito le cose più intime e profonde nascono da un percorso di vita che ti segna. Io ho avuto un percorso abbastanza pesante e lì mi sono guardato dentro. Ho scelto di approfondire il mondo dell’arte che aveva sempre fatto parte della mia vita. Ho cominciato a fare i primi progetti con alcuni artisti, mentre avevo ancora il negozio”.
Grazie alla sua caparbietà Zampol D’Ortia è infatti riuscito a creare un’importante sinergia con l’arte quando si occupava ancora di ottica:
“I progetti con gli artisti che citavo sono nati dalla mia curiosità. Mi definisco un curioso dell’arte. Quando qualcuno mi chiama esperto d’arte, io sorrido: non sono un accademico, non ho studiato. Ho iniziato aiutando gli artisti sul campo: a volte lasciavo il negozio sotto la responsabilità delle mie collaboratrici e partivo per Roma o per la Costa Azzurra, portando sculture sulle spalle ai collezionisti od organizzando mostre per dare loro visibilità”.
L’aspetto economico, sottolinea, non è mai stato un obiettivo:
“Mi interessava solo sostenere chi aveva talento e permettergli di emergere”.
E la sua indole manageriale ha giocato un ruolo fondamentale.
“Anche se sono creativo, ho un imprinting manageriale. Cerco di trasmetterlo agli artisti, perché spesso non ce l’hanno. Io definisco l’artista un ‘debole’ – in senso positivo: o lo abbracci o lo lasci indietro. Io li ho sempre abbracciati, li ho sostenuti e, in alcuni casi, anche finanziati per non distoglierli dal loro percorso”.
L’incontro con la compagna a Venezia ha aperto nuove opportunità.
“Ho potuto creare eventi interessanti durante le Biennali, più di una volta, sempre fuori dal programma ufficiale, e realizzare progetti anche all’estero. Questo percorso mi ha formato e mi ha aperto tante porte”.
Quando gli si chiede cosa faccia esattamente, la risposta è semplice e chiara:
“Io amo l’arte. Aiuto gli artisti”.
Un approccio lontano dal business tradizionale:
“Per me aiutare gli artisti è una questione intima e personale”.
Il percorso non è stato semplice:
“Partivo da zero, facevo il galoppino, e spesso mi chiedevo: ‘Chi me lo fa fare?’”.
Ma la determinazione e la mente sempre in movimento hanno guidato le sue scelte.
“Un giorno mi sono detto: ‘Perché non unire i due mondi?’. L’ottica mi ha dato da vivere e aperto porte che non avrei mai immaginato. Così ho voluto coniugarli. Tutto è iniziato prima del Covid. Una notte svegliai la mia compagna e le dissi: ‘Monica, mi è venuta un’idea! Stavolta anch’io voglio essere un artista insieme agli artisti’”.
Da lì nacquero le prime montature, frutto di un lavoro artigianale nel Cadore.
“Non guardavo due aste e un frontale, non un oggetto d’uso quotidiano: guardavo una tela. Con gli artigiani ho iniziato a incidere, perforare… quel ‘violentare’ la materia, studiarla dentro, era la mia vita”.
Il progetto coinvolge da subito decine di artisti internazionali.
“Durante il Covid dovevamo spedire le montature in tutto il mondo: Africa, Asia, Sud America. Non è stato facile”, racconta. “Una nostra artista colombiana, nella foresta amazzonica, non ricevette mai la montatura. Così realizzò un occhiale in resina da sola, senza aver mai visto un occhiale, inserendo persino frammenti dello scorpione che l’aveva punta: un’opera straordinaria, sorprendente”.
Il colore scelto per le montature?
“Il nero. Per me è il colore più intimo, più profondo. Accoglie e mette in risalto qualsiasi lavorazione o colore”.
Questa è l’esegesi di Moi Aussi, un vero e proprio movimento artistico.
“Il nome viene dal francese: ‘Anch’io voglio essere un artista con gli artisti’. È come un libro con pagine bianche che sfoglio ogni giorno, ogni giorno racconta una storia. Madre natura non mi ha dato la dote dell’artista. Mi ha dato la testa per creare. Così decisi di registrare Moi Aussi, con tre punti finali. Perché è come un libro con pagine bianche che sfoglio ogni giorno, e ogni giorno racconta una storia. Ho sempre detto che mi auguro che, un giorno, Moi Aussi possa andare avanti anche quando io non ci sarò più. Che altri riempiano le pagine bianche”.
L’incontro con David Pellicer, CEO di Etnia Barcelona è stato determinante.
“Venne a Venezia, visitammo insieme le opere, gli raccontai la storia di ogni artista. Poi andammo in giro per Venezia, a bere una birra: era curioso del progetto. Mi chiese cosa volessi fare e lì ho spiegato il DNA di Moi Aussi”.
Il sogno, grazie al contributo dell’azienda spagnola, ha trovato casa nell’Abbazia della Misericordia, a Venezia, chiesa sconsacrata che diventerà il quartier generale del progetto.
“Diventerà una residenza per artisti: artisti già selezionati attraverso una commissione internazionale arriveranno dalla primavera 2026, realizzeranno nuove opere Moi Aussi e parteciperanno a eventi d’arte. Ogni anno ospiteremo 24 artisti, due per mese. Non è facile restaurare a Venezia, ma speriamo di partire a maggio 2026, in concomitanza con la Biennale”.
Andrea conclude il suo racconto spiegando la sua visione unica:
“Ho unito l’ottica all’arte. Ho dimostrato che il mondo dell’ottica non è solo “occhiali”, ma design, arte, possibilità infinite. E ho trovato un partner come Etnia Barcelona, con una sensibilità innata per arte e fotografia, che ha collaborato con artisti e direttori artistici come Salgado, Steve McCurry, Nobuyoshi Araki. E l’idea di trasmettere sentimenti attraverso gli occhiali è il cuore del progetto. È quello che cerco di trasmettere agli artisti, in ogni parte del mondo. La settimana scorsa (ndr. l’intervista è stata registrata a novembre 2025) eravamo ad Al-Ula, nel deserto dell’Arabia Saudita, e poi a Jeddah. È stato emozionante vedere le artigiane che spiegavano le loro opere: hanno versato dentro drammi, gioie, situazioni intime. Hanno centrato esattamente ciò che volevo”.

Paola Ferrario












