È un fatto personale!

IN QUESTI GIORNI DI ORDINATO CAOS È NECESSARIO TORNARE A SOTTOLINEARE IL VALORE DELL’ESPERIENZA E DELL’IMPORTANZA DI ‘LEGGERE’ BENE IL MERCATO E IL CONSUMATORE.

Fa ancora caldo ma ieri mi sono perso sulle nuove proposte autunnali di un paio di grandi catene di ‘fashion’ per vedere se riesco in qualche modo a – finalmente – rinnovare il guardaroba dai pezzi che non sono vintage, sono proprio vecchi. Ma dopo così tanto tempo hanno un’anima, hanno condiviso viaggi, esperienze, eventi più o meno felici, separarsene non è tanto semplice. Dovrei pensare che lascerebbero spazio ad altre cose, ad altri oggetti e capi che andrebbero a condividere altre esperienze ed eventi, dovrei pensare avanti, avere una visione del ‘poi’… il problema è che questi sono giorni di profonda incertezza. E questo, per il retail nello specifico – ma non solamente, purtroppo – è un problema da affrontare con attenzione. Possiamo argomentare che il retail abbia una buona componente di ciclicità – si spende e si acquista quando situazione economica e ‘sentiment’ sono in trend positivo, si riducono i consumi mentre le cose non sono così rosee – e alcuni comparti del retail molto più di altri. Ho un po’ semplificato, ma per il gusto della discussione ammettiamo che sia proprio così. In momenti di grande incertezza – ancora argomentiamo – nei nostri comportamenti come consumatori (ma non solo) si scontrano due forze: logica ed emotività.
Dati e informazioni spostano significativamente i comportamenti, la nostra emotività radicalizza lo spostamento. Recentemente abbiamo tutti verificato con mano un aumento complessivo dei prezzi, i media sottolineano costantemente gli impatti negativi della guerra in Ucraina e delle tensioni geopolitiche sui prezzi dell’energia e si sprecano esempi di bollette in crescita esponenziale, aumenta la pressione emotiva, non possiamo controllare il mondo che ci circonda, ma possiamo rivedere il modo di porsi di fronte a questo livello di incertezza. E infatti leggo che il 71% dei consumatori ha cambiato i propri comportamenti, ricercando il ‘deal’ tra nuovi brand, riducendo le spese appunto ‘cicliche’ e facendo acquisti presso i grandi discount (pare un buon 40%).
Però la stessa ricerca sottolinea come esista in ogni caso un 20% di consumatori che prevede di spendere tranquillamente come se niente fosse, particolarmente in viaggi. Che non necessariamente saranno i più abbienti, visto che in realtà la fascia premium del mercato è preoccupata dei prezzi che crescono di due punti percentuale più della fascia meno ricca. C’è però meno emotività – forse – tra quel 20%, sempre e comunque voglia di cercare un valore esperienziale, per sé stessi, non per mostrare, ma per vivere piacevolmente. Ne abbiamo parlato molto, ma in questi giorni di ordinato caos mi pare necessario tornare a sottolineare il valore, fondamentale, del concetto di ‘esperienza’, e dell’importanza di ‘leggere’ bene il mercato e il consumatore, il cliente, l’utente per evitare di trasformare il momento chiave del trasferimento del nostro valore al nostro cliente – appunto l’esperienza – in un carnevale senza nemmeno la maiuscola. I consumatori lasciano enormi quantità d’informazioni su di loro, sulle preferenze, sui comportamenti, sulla predisposizione alla spesa e queste sono le letture che dovremmo fare, per arrivare a capire che cosa può essere il retail del futuro a brevissimo e in questo scenario mutevole e complesso come non mai. Man mano che i dati sui consumatori diventano più facilmente disponibili, si sono aperte una serie di nuove opportunità – e anche passi falsi da eccessiva sicurezza, in verità – per i retailer che vogliono sfruttare il potenziale dei dati. Una lunga lista d’ipotesi su ‘come fare’ e in cima a quell’elenco c’è la personalizzazione. La personalizzazione è uno strumento versatile. Per il marketing, significa essere in grado di indirizzare meglio le offerte di vendita e gli annunci pubblicitari, un uso critico del passato per indirizzare il futuro. Per i rivenditori, può significare qualsiasi cosa, dall’offerta di consigli sui prodotti ‘curati’ alla personalizzazione dei negozi e al branding più ampio per parlare con una fascia demografica specifica. Per l’acquirente, la personalizzazione è qualcosa di completamente diverso. È la sensazione che un prodotto sia stato realizzato appositamente per loro o la sensazione che un marchio lo conosca abbastanza bene come individuo da inviare solo i prodotti e le offerte più rilevanti. La relazione tra acquirente e rivenditore diventa molto più simile a una conversazione tra amici, almeno questa è l’idea. E in una conversazione la capacità di ascolto è un prerequisito, per fare in modo che il messaggio sia quello corretto, passato nel ‘linguaggio’ corretto al momento giusto, diciamo che per ben conversare serve anche un poco di umiltà nel porsi al servizio, per essere sicuri di aver capito. Uno studio recente racconta di una certa discrepanza tra quanto il mondo retail è convinto di ‘personalizzare’ il messaggio ai clienti e di come i clienti percepiscono il lavoro fatto: 71% dei retailer è super-sicuro di aver fatto un buon lavoro, ma solo il 34% dei consumatori è d’accordo. Forse perché non appena siamo pronti a uscire con il messaggio chi ci deve ascoltare si è ‘mosso’? Possibile. Personalizzare quando si ascolta è relativamente semplice se – come abbiamo già avuto modo di discutere – il nuovo sistema retail è un sistema ‘omnicanale’. L’amministratore delegato di Misfits Market – un retailer online di ‘frutta e verdura’ – sottolinea come possa costruire un negozio personale per ciascun cliente, basandosi sulle informazioni raccolte, le dinamiche di acquisto e di non acquisto (a fronte di messaggi marketing specifici), la sfida per chi opera anche nel mondo reale è arrivare a questo livello di esperienza personalizzata quando di negozio ne hai uno. Nel mondo dei prodotti di bellezza si sta cercando di vincere questa sfida. Diversi brand – a oggi leggo non i nomi ‘leader’, ma è un gran bel messaggio di strategia competitiva, questo – stanno usando moli di informazioni aggregate per costruire delle routine di bellezza totalmente personali. Si parla di un database di più di 4.000 studi clinici, ventotto milioni di recensioni di clienti su 100.000 prodotti e 20.000 ingredienti, un progetto poderoso, ispirati a progetti simili di Netflix o Pandora per film e musica. Se poi, su queste fondamenta, ci abbini – per tornare al dialogo – un questionario diagnostico online che i clienti compilano, che replica il modo in cui un dermatologo condurrebbe una valutazione, voilà, la formula del cliente è fatta. È troppo esagerato? No, perché, sfrutta quello che c’è a disposizione, ma più che altro definisce un’attitudine al mercato, a come muoversi ‘verso’ il mercato che è incredibilmente necessaria per emergere e costruirsi un terreno fertile. Tanto che il 70% dei clienti di questi ‘pionieri della personalizzazione’ comprano a ripetizione, con un ‘lifetime value’ – un valore del cliente mentre ‘vive’ la sua vita con un brand – che è 20 volte superiore alla media del settore. Chiaramente l’azienda usa sistemi avanzati di ‘predictive analytics’ – diciamo analisi predittive per capire quali potranno essere i prodotti necessari per un dato periodo dell’anno e costruisce la produzione su queste analisi. Un lavoro di fino, ma i lavori di fino pagano.
Ma il lavoro fino non è solo ‘nascondersi’ dietro tecnologia e algoritmi, non nel retail almeno. Poiché gli algoritmi si basano solo su dati storici e spesso devi essere in grado di utilizzare quel sesto senso che hai come commerciante, quello che ti dice che questo è un rischio che vale la pena correre, che è una direzione sostenibile, che il cliente è con te al di là di quanto possa dire un numero e allora via, a tutto gas per far sapere al cliente che questo è un articolo indispensabile che deve assolutamente possedere. Servono talenti e visionari nella vendita al dettaglio, perché alla fine un algoritmo oggi è raffinato per dare una predizione accurata su cosa un cliente potrà comprare, ma non può predire un trend, non può anticipare quando qualcosa andrà fuori mercato perché ancorato al passato. Il problema di fondo è legato all’ecosistema che non posso controllare, quell’esterno che, sfortunatamente per chi deve pianificare, neanche muta, si ribalta letteralmente. A oggi possiamo disegnare un quadro abbastanza preciso delle tendenze d’acquisto, dei comportamenti e delle priorità del ‘cliente tipo’ (a ciascuno il suo), ma gli eventi all’orizzonte impongono un approccio prudenziale. Investirei oggi per trasformare l’esperienza retail verso una personalizzazione estesa quando non so che cosa possa essere, che so, il periodo delle festività: l’anno scorso si parlava di una spesa ‘pro capite’ tra i duecento e i cinquecento euro per il Natale, ma quest’anno? Energia, pandemia, guerre.. è complesso. E allora il retailer di talento non guarda solo alle altre aziende del suo segmento o al modo in cui le persone fanno acquisti, ma guarda anche ad altre aree del ‘gusto’, del modo di essere delle persone. Il gusto racchiude tutto, da ciò che mangi e bevi, da ciò che guardi e da come ti pettini. Tutti questi aspetti sono correlati tra loro ed è una cosa molto, molto complessa che accade al di fuori del mondo virtuale, anche se lasciamo tracce sui nostri device. Noi ‘umani’ siamo le nostre scelte, e ogni scelta è ponderata o sentita, ma è parte di noi, ci identifica e ci differenzia, ci permette di far parte e di selezionare, le nostre scelte definiscono il nostro posizionamento culturale e, se vogliamo pensare in termini sistemici, definiscono la cultura di interi gruppi sociali omogenei e della ‘società’ nel suo complesso. Il ‘gusto’ definisce la nostra identità e mai come oggi l’idea di ‘identità’ è dominante nelle discussioni, nelle evoluzioni del sistema sociale, nelle generazioni. Il retail, che lo voglia o meno, è parte ben integrata nei concetti di gusto e cultura, e chi ha talento nel retail lo sa. Questa sensibilità ‘culturale’ manca a un algoritmo, ed è questa sensibilità che permette alla personalizzazione di diventare una conversazione interessante, che ci vede partecipi, realmente un fatto personale.

Alessandro Lorenzelli | DECONSTRUCT

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