La forza della leggerezza. Intervista a Janet Echelman

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di CRISTINA BIGLIATTI

Janet Echelman comincia la sua carriera artistica come pittrice, fino al momento in cui un contrattempo cambia improvvisamente il suo destino.
Durante la sua permanenza in India, organizza una mostra presso l’ambasciata Americana. Qui, a causa di un problema con la spedizione delle sue tele, è costretta a riorganizzare completamente la sua esposizione nottetempo. Rimasta senza materiale da esporre, si reca in spiaggia per una passeggiata in cerca d’ispirazione, quando inaspettatamente la coglie un’epifania mentre osserva i pescatori intrecciare le reti: individua un nuovo approccio alla scultura, un modo innovativo per realizzare delle forme volumetriche senza dover utlizzare materiali solidi pesanti. Da questo momento comincia a realizzare delle reti vaporose e colorate, che lascia sospendere tra i palazzi delle città. Queste sue sculture urbane consistono in superfici morbide in continua evoluzione, che rivelano ogni increspatura del vento, in un delicato dialogo con la città e con gli elementi naturali che la attraversano.

La sua incredibile opera d’arte intitolata “As If It Were Already Here” è una scultura fluttuante, sospesa sopra il parco Rose Kennedy Greenway di Boston. Il titolo rimanda a qualcosa che si trovava esattamente in quel luogo e che ora invece non c’è più: di cosa si tratta?
Si riferisce al modo in cui la città di Boston ha reinventato e trasformato i suoi spazi fisici, non una, non due, ma numerose volte. In un primo tempo, nel 1700, ben tre montagne sono state spianate per realizzare il porto; successivamente, negli anni Cinquanta, per bypassare un intricato centro cittadino è stata realizzata una sopraelevata; infine, nel momento in cui abbiamo realizzato che i nostri valori sono cambiati, lo spazio occupato dall’autostrada è stato bonificato dalle automobili e restituito alle persone sotto forma di passeggiata urbana nel verde. L’uso del condizionale nel titolo mira a sottolineare la capacità di immaginazione delle persone ed evidenzia l’importanza di reinventare lo status quo.

La scultura è composta da oltre mezzo milione di nodi, ognuno dei quali segue il movimento di tutti gli altri. Numerosi elementi improvvisamente diventano un corpo unico: questa interconnessione vuole avere anche un significato altro?
La scultura accresce la consapevolezza di come siamo tutti legati gli uni agli altri. Quando ammiro la scultura, vedo una prova tangibile della nostra capacità di lavorare insieme per cambiare le cose. Un evento che accade in una parte del mondo, può avere effetti che si ripercuotono su tutto il pianeta. Come individui possiamo sentirci impotenti, proprio come un pezzo di corda, ma quando siamo legati gli uni agli altri acquistiamo una forza e una resistenza incredibili.

Le fibre che compongono la scultura sono più resistenti dell’acciaio, ma anche molto leggere. Di nuovo, c’è qualche altra metafora nascosta nella sua arte?
La scultura, monumentale e al contempo delicata, è sensibile ai soffi di vento ed alle mutevoli condizioni meteorologiche. È sufficientemente robusta per resistere ad un uragano ed allo stesso tempo è incredibilmente leggera, il che le permette di essere collegata direttamente a tre edifici.
A volte trovo che le città siano alienanti: immense distese di materiali freddi, duri, che si sviluppano in linee diritte in opposizione alla morbidezza del corpo umano. Le mie opere rappresentano un elemento di contrasto: quando intreccio a mano le reti per realizzare queste installazioni, cerco di colmare il divario esistente tra un grattacielo industriale e il mio stesso corpo.
Se la scultura di Boston riuscisse, anche solo per un attimo, a fare in modo che una persona si abbandoni ad un momento di contemplazione, o ad evocare un sentimento di unione con la natura mentre il vento di Boston fa fluttuare l’opera, il mio obiettivo si potrebbe certamente considerare raggiunto.