Non è di mia competenza!

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Tratto dal libro di Roberto Rasia dal Polo: “Conduci la tua vita!” in vendita su www.LikeNOone.com

Non è di mia competenza! Quante volte abbiamo sentito dire questa frase? Quante volte – ammettiamolo – ci è scappata in azienda o in un negozio dove lavoravamo? Ai miei occhi di formatore e comunicatore sappiate che si tratta di una patologia vera e propria. Non solo questa è una frase psicologicamente limitante, ma porta con sé un universo di significati che spesso riducono concretamente le performance di un’intera attività commerciale o di un team di persone.
Il tema vero è proprio quello del gruppo, con una distinzione forte fra Team-Building, che è materia dei leader e significa capacità di costruire intorno a sé e mantenere un gruppo di lavoro e Team-Working, che invece è pane quotidiano di qualsiasi gruppo di lavoro in qualsiasi attività imprenditoriale. Questo “lavorare in team” ha assunto un significato superiore a qualsiasi aspettativa fino a pochi anni fa.
Se il titolare di un negozio e il suo dipendente valgono come la somma dei propri singoli valori, quello non è un team di successo. Perché tanto vale che stiano a casa e facciano ognuno il proprio lavoro senza avere anche gli oneri di costruire un team (perché di oneri si tratta), di gestirlo e farlo durare. Dunque, qual è un team di successo che si possa vantare di essere tale? È quello in cui l’unione di un titolare, per rimanere nel nostro esempio, e il suo dipendente sviluppano un’armonia tale nel lavorare insieme che il valore del loro risultato professionale è superiore alla somma dei singoli fattori. Con un’immagine matematica facilmente comprensibile, il team che funziona è quello in cui 1+1 fa 3 e non solo 2. Bello da dirsi, ma difficile da farsi. Certo, perché questo si realizzi bisogna trovare le risorse giuste (ecco l’importanza del selezionatore in un’organizzazione di lavoro), saperle motivare con un ingrediente che i due studiosi americani Elton e Gostick hanno definito “Engagement” e, poi, farlo durare nel tempo, la vera sfida di ogni imprenditore. In tutto questo capirete facilmente quanto conti saper comunicare. Ancora una volta nei nostri ragionamenti si torna lì, alla consapevolezza di come si comunica, di come si utilizza il più potente mezzo a nostra disposizione.
Ancora una volta è il COME che conta ancora prima del COSA. La dinamica fortemente limitante in cui una risorsa di un’attività commerciale si sente accusare di una colpa che non sente propria e scarica su altri l’accusa è quanto di più comune si possa trovare in azienda. È giusto che quella risorsa si comporti così? Dal punto di vista della formazione comportamentale no e cercherò di spiegarlo. Se la premessa dell’1+1 = 3 viene accettata, la singola risorsa umana non potrà più essere considerata come un’isola a sé stante all’interno di un’organizzazione, ma sarà parte integrante di quell’organizzazione.
Mantenendo però le proprie peculiarità personali, che evitano a quell’azienda di diventare una fabbrica di automi uguali gli uni agli altri. Come si può concretizzare questo “sentirsi parte” di un’organizzazione? Assumendone il punto di vista, sposandone i valori, partecipando attivamente alla creazione di quella cultura aziendale che pare oggi essere la skill principale di chiunque voglia essere protagonista sul mercato. A quel punto, allora, la cartaccia buttata per terra dal cliente maleducato di un bar verrà raccolta con tanta solerzia dal dipendente del bar quanto dal suo proprietario.
Fin qui la teoria. Sugli aspetti di miglioramento si può lavorare portando a casa risultati egregi. È sull’assunzione delle colpe che, invece, quasi tutte le organizzazioni complesse fanno acqua. Quando quel proprietario del bar si rivolge con tono errato (comunicazione…) al dipendente per sgridarlo perché i lavabi non sono stati asciugati, il dipendente ha due strade di fronte a sé. La più intuitiva e facile è quella di scrollare le spalle e far presente al titolare che i lavabi doveva asciugarli il suo collega, che versa già in una situazione contrattuale difficile.
La seconda strada è quella di sentirsi parte di quel team a tal punto che il titolare cambierà sicuramente modo di far notare quell’errore al dipendente (comunicazione….) e il dipendente non dirà più “Non è di mia competenza, non è colpa mia perché non dovevo farlo io”, ma sentirà sulla sua pelle la responsabilità di avere un bar in cui i lavabi non sono stati asciugati, magari agli occhi di un cliente. Ripeto, fin qui la teoria che già ci viene in aiuto con una visione che parla di organismo unico e non di titolari e dipendenti.
Passando poi alla pratica, siamo consci che molte teorie e molte strategie saltino, ma l’obiettivo di un’attività commerciale non è e non dev’essere quella di essere perfetta, se no andrà incontro a molte frustrazioni e fallimenti.
Al contrario, il faro che guiderà i titolari e i dipendenti dovrebbe essere quello di sentirsi tutti parte della stessa realtà, quella di un bar con i lavabi ben asciugati.
Vi rendete conto di che effetto avrebbe sul dipendente se la prima volta il titolare si alzasse le maniche di camicia e si mettesse ad asciugare i lavabi senza proferire verbo?
Comunicate, gente. Non è mai abbastanza!