Resilienza! Sarà un Concept da poter davvero realizzare?
LA RIPATENZA DOPO LA PANDEMIA
Il termine che è diventato molto di moda negli ultimi due anni, lo sarà anche in futuro o evocherà periodi bui?
Per contribuire a superare la crisi politico-socioeconomica sembrava di si, ma dodici mesi di virus hanno cambiato le prospettive e aperto nuovi scenari agli investimenti davvero importanti. Credo che più o meno tutti non ne possono più di sentir parlare di resilienza come fosse una “medicina” per la crisi che tutti, o quasi, stanno cercando di sopportare.
Sono più di un paio di anni che si sente parlare di resilienza in tutte le salse. Riguardo alla resilienza si sono tenuti convegni, spesso sponsorizzati da grandi organizzazioni e a cui hanno partecipato testimonial di un certo calibro che hanno decantato le proprietà curative taumaturgiche della resilienza.
Cercando sul web è facile scoprire che la resilienza è diventata anche un business per alcuni intellettuali (che rispetto davvero e guardo con sentita ammirazione per la grande capacità oratoria) e non mi meraviglierei se trovassi in rete pure un “corso per diventare resilienti” che tanto assomiglia alla promessa del Guru di turno.
Per intanto ecco il significato della parola: Resilienza /re·si·lièn·za / sostantivo femminile. Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. In psicologia, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Analizziamo attentamente entrambi i significati.
Liquido / Di un’entità fluida che, determinata e recepita la località geografica, conserva la propria cultura, ma tende ad assumere più o meno rapidamente il carattere e la forza sociale della città o del territorio in cui ha scelto, o è obbligata, di/a vivere.
Il primo: Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Va da sé che qualunque materiale subisca un urto non può uscirne come prima. Ci saranno di certo microfratture, lesioni, deformazioni che lo rendono diverso forse più fragile di quanto non lo fosse prima. La deduzione è logica e appartiene all’esperienza di tutti quanti noi.
Il secondo: In psicologia, la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Anche in questo caso superare o andare oltre un evento traumatico lascerà delle conseguenze che si manifesteranno inaspettatamente.
In psicologia vengono anche chiamati “trigger” ovvero risposte automatiche a determinati stimoli. L’accostamento con la prima definizione è molto veloce: come è logico dedurre che se in un materiale un urto lascia delle crepe o delle fragilità, allo stesso modo un trauma, specie se prolungato, lascerà dei danni e delle fragilità in chi lo subisce.
È abbastanza facile intuire che la resilienza non è più l’unica risposta sufficiente, ma è solo una condizione di passaggio (come un periodo in bunker in attesa che finisca il bombardamento) che deve essere gestita e superata, credo con nuovi e diversi strumenti.
Va bene la capacità di assorbire l’urto ma poi? È come dire che l’essere umano ha la capacità di risaldare un osso rotto, una reazione adattiva ma che non ci mette al riparo della frattura e del dolore che ne deriva e neppure dal ricordo che può riemergere traumaticamente a distanza di tempo sotto forma di ansia e di paura.
Alla resilienza a mio parere va affiancato un altro concetto: la liquidità. Essere liquidi va ben oltre la capacità di essere resilienti. Il liquido si adatta al recipiente alla velocità che gli consente la sua viscosità.
Ne deriva che mentre la resilienza non ti mette al riparo dagli urti e dai traumi, la liquidità (che può rispondere in modo creativo e reazionario – creazionario – a uno stimolo, a un trauma o a una violenza) invece porta a reagire e ad adattarsi velocemente alle nuove condizioni senza, o quasi, nefaste conseguenze.
Possiamo quindi immaginare la viscosità come se fosse la nostra dotazione culturale coadiuvata dalle risorse economiche di cui possiamo disporre. Tempus fugit.