Stay hungry stay foolish
G… come gioco, G… come come gioia.
Gioco. Calatevi nei panni di un cliente. Cosa direste a un venditore che vi fa una proposta apparentemente fuori dalle righe o ha un comportamento sorridente, che sembra poco consono al momento e alla dinamica in atto?
“Ma lei sta scherzando? Guardi che io non sono mica venuto qui per giocare!”
Probabilmente lo apostrofereste con una frase simile a questa, vero? Bene, analizziamola un attimo con attenzione. Frasi come questa ci vengono dette (e poi noi le ripetiamo) migliaia di volte nella nostra infanzia e giovinezza. Associano lo scherzo e il gioco a qualcosa di poco serio, di sbagliato e riducono la valenza di una dinamica – quella del gioco – estremamente utile anche in fase adulta.
Oggi molti psicoterapeuti concordano nel fatto che nel mondo del lavoro manchi creatività, gioco, leggerezza. Che non significa superficialità, ma capacità di vedere le cose da un punto di vista un po’ diverso rispetto al solito. Significa inserire un sorriso in una negoziazione che tutti prendono molto seriamente. Cosa accade a chi riesce a farlo senza perdere la propria credibilità né la propria professionalità? Si spezza un modulo, si dice. Ovvero si prende in contropiede la persona che abbiamo di fronte, costringendola a ripensare certi atteggiamenti.
Volete un esempio? Pensate a come ragiona un bambino. Non segue schemi socialmente consolidati. È capace di ridere e diventare serissimo subito dopo. Immagina, crea e sostiene le proprie teorie con figure mentali vivide e fervide. Gioca. I bambini giocano. Noi adulti abbiamo smesso.
Vi ricordate di quando eravate piccoli? Qual era la vostra principale occupazione? Giocare, esatto.
Assorbiva ogni vostra energia e sforzo. Per un bimbo il gioco è molto di più che un’attività ludica di distrazione, come per un adulto. Maria Cichero, pedagoga e famigerata maestra delle scuole elementari, mi insegnò quando ero adulto che per capire davvero com’è un bambino bisogna osservarlo mentre gioca. È verissimo, ne viene fuori l’anima più sincera o, in alternativa, se ne evidenziano i problemi sociali e di relazione.
Giocando si ride, si urla, si bisticcia e si fa la pace.
Poi, ci si intestardisce e si impara la competizione. La voglia di evadere e la creatività. Infine, Il gioco insegna l’importanza delle regole e la capacità di sapere perdere. E, allora, perché quando diventiamo adulti smettiamo di giocare? Perché in vendita nessuno gioca più?
Quando si cresce, lentamente ma progressivamente, ci sentiamo dire centinaia di volte l’anno: “Sii serio!” oppure “E piantala di giocare!” o ancora “Ma cosa credi che sia un gioco?”
Molte volte queste prediche hanno ragione di esistere, ma hanno un effetto deleterio: uccidono nel ragazzino la voglia di giocare, associando il gioco a qualcosa di sbagliato, di lontano dall’essere ‘adulto’ e vicino a qualcosa di vacuo.
Questo insegna Erasmo da Rotterdam nel suo capolavoro “Elogio della pazzia”, libro che tutti citano ma che pochi hanno letto. Non è un’apologia dell’essere pazzi, ma un invito ragionato e molto creativo a non abbandonare il ‘gioco della vita’ ovvero quella capacità che hanno i bambini e che ogni tanto è necessaria anche da adulti di rompere gli schemi, di cambiare rotta, di vedere le cose da un punto di vista diverso, apparentemente ‘pazzo’.
Questo voleva dire anche Steve Jobs in quell’ormai celebre discorso che tenne il 12 giugno del 2005 all’Università di Stanford, quando alla fine disse come morale del proprio meraviglioso discorso: “Stay hungry, stay foolish”. Rimanere nella vita adulta affamati, rimanere folli significa poter contare su una serie praticamente infinita di capacità che da bambini avevamo e da adulti perdiamo miseramente (trovate il discorso di Steve Jobs al seguente indirizzo web: www.youtube.com/watch?v=nFKY8CVwOaU).
Fa sorridere, allora, che le aziende investano milioni di euro per progettare e organizzare decine di giornate l’anno di training professionali outdoor, come gite in barca con i propri manager calati nei panni di improvvisati velisti o come tornei e gare di cucina in cui l’Amministratore Delegato indossa il grembiule e il cappello da chef e si fa passare gli ingredienti dallo stagista appena arrivato in azienda.
Intendiamoci, questi training se ben progettati e soprattutto ben condotti da abili e professionali formatori sono utilissimi, ma non pare assurdo che un’azienda debba investire dei soldi per fare ‘divertire’ i propri uomini fuori dall’ufficio? Già dovrebbero saperlo fare! Il gioco unisce, agevola il team-working e crea uno spirito di squadra molto produttivo. Peccato che da bambini ci venisse automatico!
Gioia.È un argomento decisamente correlato al precedente. Amo questa parola, così come la felicità. C’è una certa di differenza tra Felicità e Gioia e, sebbene istintivamente la felicità renda meglio o più pienamente il concetto di benessere di una persona, la gioia ha una caratteristica che mi seduce un po’ di più.
Ritengo che la felicità abbia una connotazione di stato d’animo positivo in cui si trova una persona per via di determinate situazioni che la riguardano. Uno “è” felice.
È un concetto bellissimo, ma è passivo. Vista una lunga serie di situazioni soggettive positive, uno “è” felice.
Invece, almeno grazie alla nostra magica lingua italiana, una persona “esprime” gioia, “comunica” gioia. La gioia mi suggerisce un atteggiamento più attivo. Certo, uno può essere ‘gioioso’, ma è un’altra cosa. La gioiosità di una persona è un lato del carattere o del suo stato d’animo del momento.
Mi piace pensare che la Gioia sia una caratteristica etica dei bravi comunicatori. Strettamente correlata all’Energia (capitolo E) e all’entusiasmo, la gioia è profondamente contagiosa e attira a sé gli altri (capitolo S di Seduzione).
Cosa può fare un comunicatore quando si trova accanto a qualcuno che non esprime gioia? Tendenzialmente a tutti noi viene naturale criticare. “Guarda quello che musone!” oppure “Ma perché non ride mai, ma cos’ha da lamentarsi sempre?”
Ancora una volta, proviamo con l’Ascolto ovvero con l’osservazione. Cerchiamo di capire perché quella persona non ha gioia nel cuore. Guardiamo la vita dal suo punto di vista. Probabilmente ne capiremo le ragioni e lo potremo comprendere e aiutare più facilmente.
Ma cerchiamo di fare di più. Contagiamolo con la nostra Gioia, senza imporgliela. Perché anche sforzare un meccanismo dà fastidio. Non c’è, infatti, cosa peggiore di una persona che ti assale col suo sfacciato ottimismo nel momento in cui sei di pessimo umore. Sentiremmo subito di essere invasi e l’effetto sarebbe quello opposto ovvero di chiusura.
Il segreto è la parola ‘distrazione’. Con un ascolto attento e una comunicazione positiva, comprendiamo le ragioni del nostro amico di malumore. Ne parliamo con lui, anzi lo facciamo parlare. Sfogare il proprio pessimismo è il primo passo per risolverlo e poi, dopo un’adeguata manciata di minuti, lo distraiamo. Ovvero ne violentiamo l’attenzione (dopo essercela guadagnata pienamente), associando un cambio di discorso ad un linguaggio del nostro e del suo corpo decisamente diverso da prima.
Un cambio di posizione, la proposta di sedersi al suo posto per via di un male al collo o piccoli trucchi così daranno una vera scossa al sistema nervoso dell’altra persona. Ne avremo cambiato la fisiologia e, da qui, il suo stato d’animo.
Me ne accorsi una volta che ricevevo da 20 minuti le confidenze pessimistiche di un amico trainer di aerobica, appassionato di ginnastica. In una sua pausa, scattai in piedi e gli dissi se mi faceva un favore.
Se mi insegnava a fare i piegamenti su un solo braccio.
Si illuminò e dopo altri 20 minuti io avevo i crampi a un braccio, mentre lui era tutto sorridente.
La gioia si trova ovunque. Siamo noi che ogni tanto non vogliamo vederla. A questo proposito, mi viene in mente un cartello che lessi in un tempio buddista nel 2010 a Sudokai in Thailandia. Me lo feci tradurre e c’era scritto: “La Gioia è già dentro di noi. Dobbiamo solo farla emergere”. Peccato che riportarla a galla sia così difficile, soprattutto in certi momenti.
A metà degli anni 70 il re del Bhutan Lijme Singye Wangchuck ha inventato la FIL ovvero la Felicità Interna Lorda, un parametro con cui vuole che il suo popolo venga giudicato. Non è male come provocazione.
E se ogni mattina e ogni sera ci chiedessimo quanta FIL abbiamo prodotto?