Tutti parlano di futuro

IL TEMPO È UNA COSA RELATIVA, MI PARE DI AVER CAPITO. SICURAMENTE È UN QUALCOSA DI STRANO, SCORRE E NE SIAMO PARZIALMENTE CONSAPEVOLI, E MENTRE DOVREBBE CONTARE IL PRESENTE VIVIAMO NEL PASSATO E PROGRAMMIAMO FUTURI CHE NON ESISTONO ANCORA. TUTTO QUESTO PANEGIRICO PER DIRE CHE A MARZO HO PARTECIPATO AD HOMI – LA FIERA, IL GRANDE EVENTO MILANESE DEDICATO AL RETAIL, O MEGLIO AL ‘LIFESTYLE’.

Ho aperto i workshop di Platform Architecture and Design con un intervento intitolato ‘The new retail experience’, sicuramente suggestivo, e devo ammettere che ha suscitato discussioni interessanti. Ma quello che interessa di più me – e spero voi – è tutto quello che ho sentito ed è successo in quei due giorni. Perché ne voglio parlare? Ma perché come sempre è saggio conoscere il mercato, capirne le sfumature, assorbirne la creatività perché, non facciamoci illusioni, il ‘mercato’ ne sa più di noi.
C’è un termine, ‘outguessing’, che tradotto vorrebbe dire anticipare correttamente, sorpassare in saggezza se vogliamo, ecco, questo non succede con il mercato che, tutto incluso, ha grande saggezza nel conoscere cosa desidera e come lo desidera. Quindi, ascoltiamo. Ed io ho ascoltato molte cose, quindi le propongo e commento, un piccolo compendio su ‘come il retail vede sé stesso’ e se si piace o meno.
Una prima cosa, apparentemente semplice ma molto spesso sottovalutata, è che il retail è un’esperienza sensoriale, definita dai sensi e non esclusivamente dai bisogni, e guidata dai cambiamenti che il tempo compie sulle percezioni di cosa è bello, in voga e cosa no, sempre parlando di sensi. Colori, suoni, forme, ricordi, rimandi, suggestioni sono filtrate dalla nostra capacità di capire ‘il tempo giusto delle cose’ e su questo costruire. Ho trovato questo appunto molto interessante. Si incontrano spesso spazi che non sono vintage, sono semplicemente vecchi, sorpassati, incoerenti col tempo dettato dai gusti del mercato, totalmente non rilevanti per gli occhi del nuovo consumatore, materiali che a livello tattile non comunicano più con lingue comprensibili. Ma, si potrebbe dire, non tutti possono permettersi, non tutti sono nella posizione di. Ho visto cose, in HOMI, che parlano di riciclo, di ‘repurposing’, uso di materiali poveri ma con una visione guidata dal mercato, innovazione sostenibile, piccoli tocchi di genio che non richiedono certo esborsi a sei zeri, ma nemmeno nella fascia alta dei cinque zeri, chiedono però consapevolezza di che cosa sia essere nel retail, un business non basato sul ‘negozio’ ma sul sogno.
Esagero? Forse, ma non credo. Il negozio, quello fisico, del prossimo futuro – proviamoci, via! – è stato definito come una piattaforma multi e cross-canale, un momento di fusione dei vari touchpoint che oggi si hanno con il cliente. Avevamo accennato a questa cosa, come sempre è un bene avere conferme. Il negozio non è un magazzino, neanche un tentativo di rendere ‘palatabile’ un bene, o – oggi – neanche più il racconto egocentrico di un architetto visionario. Mi è stato ricordato come il design di un punto retail a qualsiasi livello è passato da essere uno sforzo creativo prima a servizio dell’architetto, poi del brand ed oggi deve essere a servizio del cliente finale, un contenitore esclusivo per tutto quanto fa esperienza, online ed offline che si fondono in uno spazio ‘memorabile’ – ho sentito dire. Qualcosa che rimanga nell’immaginario, qualcosa che sia un punto fermo nella mente del cliente e, consideriamo questo, con il livello di interculturalità che oggi ci contraddistingue, esistono esempi di realizzazioni che fanno del ‘minimalismo’ uno shock positivo, della linearità un pregio, del ‘meno’ un valore. Non solo arazzi ed ori ovunque, basta come sempre capire il nostro mercato ed accogliere nel luogo corretto.
Il retail quindi, il negozio, diventa ‘una comfort zone emozionale’. Qui mi sono fermato a pensare, perché questa definizione mi è piaciuta moltissimo. Un luogo dove la tensione – magari istintiva – che spesso contraddistingue il retail, il commercio, quel ‘tu vuoi vendere ma io non devo comprare’ viene annacquato e poi annullato da un luogo fisico che invece di ossessionarmi con proposte mi culla e tranquillizza con soluzioni – ricordate i sensi – che emozionalmente mi mettono in assonanza con il brand. Una specie di Ohm, una frequenza orientata al benessere, al non-conflitto. Per questo è necessario – appunto – che lo spazio fisico diventi multi-esperienziale, perché io oggi come cliente, come ‘utente’ (consumatore è vecchio) sono in luoghi diversi al tempo stesso, ho percezioni di cosa sia giusto e sbagliato in costante mutazione, ed un retailer deve permettersi di capire, deve, appunto, creare una piattaforma e non un magazzino, per far sì che il cliente stesso, interagendo, racconti cosa lo mette in ‘comfort zone’. Qui si apre spazio per un altro suggerimento. L’esperienza retail non può oggi prescindere da approcci che possono essere definiti ‘etici’.
Le persone, i clienti se proprio vogliamo, hanno modificato il proprio set-up etico, colpa – o merito decidete voi – del COVID, dei cambiamenti climatici a livello globale, l’ascesa della sostenibilità e del ‘green business’, più altre cose qua e là, in ogni caso la sensibilità al tema ‘etico’ è aumentata. Se non credete che sia aumentata, è saggio porsi il dubbio se lo sia.
Lo è. Abbiamo fatto in Deconstruct una ricerca qualche tempo fa e più del 40% dei clienti è disposto a cambiare marchio, azienda, fornitore, qualunque cosa sia se vengono meno – nell’offerta ma anche nella percezione che si ha dell’azienda in questione – i canoni etici che si ritengono oggi fondamentali. E 40% – considerata la fatica che si fa per portarsi a casa un cliente (ancor più se ricorrente) – è una bella fetta di fatturato, di posizionamento sul mercato, di reputazione. Reputazione, che gran bel termine.
Per qualcuno, pensiamo a come potrebbe cambiare la nostra reputazione se si sapesse che nel ridisegnare il proprio negozio, il proprio spazio, la propria esperienza retail sono arrivato a usare fino al 94% di materiale ‘reusable’, riutilizzato, recuperato, in un’opera di trasformazione e riuso, un pensare alla seconda vita del materiale, ma anche alla terza, che cosa si farà di quanto in uso oggi, domani. È economia circolare, è retail circolare. Non è esercizio di stile, per molti oggi è un valore, i tentativi di avere senso in un mondo che pensa ‘etico’ sono lì, sotto gli occhi di tutti, stampigliati ovunque, dai social alle shopping bag di marchi famosi che dell’etico stanno facendo bandiera (pur provenendo da segmenti tutt’altro che ‘eco-friendly’).
Quindi, tornando al retail, il negozio è una parte, visibile e operativa, dell’esperienza che un cliente fa del brand. Se poi il negozio è multi-brand, moltiplicate. Le scelte – oppure le non-scelte – che si fanno nel modo di disegnare l’esperienza fisica in un punto retail sono in funzione del DNA del marchio – o dei marchi – che si distribuisce, dipendono dal mercato di riferimento per il brand, e sono la terminazione ultima (almeno nello spazio fisico che ci compete qui) di tutto quanto il brand ha fatto per essere a mercato, essere rilevante, essere. Il che, mi pare di poter tranquillamente dire, è una responsabilità non banale quando si pensa a ‘rifare il negozio’.
Negozio che, altra suggestione, oggi deve essere – e qualcuno ci aggiunge un tuonante “assolutamente!” – un luogo da ‘Instagram opportunity’, disegnato per dare opportunità di creare storie ed immagini che il social network – e gli utenti che seguono – digerisce come interessanti, meritevoli, d’impatto. Si è accennato in un precedente articolo come il social media shopping sorpassi di tre volte l’e-commerce nel prossimo futuro, e repetita iuvant, meglio essere consapevoli e dinamici che essere sorpresi immobili. Quindi un retail che ha un senso oggi e nel futuro vede in ogni angolo, taglio di luce, colore, forma, vede nell’intera fisicità del negozio un palcoscenico per far sì che i clienti, i curiosi, i ‘dò solamente un’occhiata’ possano diventare testimoni dell’eccezionalità di quanto in mostra. Perché, si dice appunto, che il ‘dove compro’ sarà un differenziale competitivo, nel futuro. Il fatto di aver comprato un prodotto in un negozio ‘cult’ diventa un magnificatore del valore dell’oggetto, dell’esperienza fatta e dello status del cliente come un connoisseur. In marketing si parla, lo sapete, di COE, di Country of Origin Effect, l’effetto che ha sulla percezione di valore di un prodotto il suo luogo di provenienza. Se pensiamo lusso, alcune nazioni – inclusa l’Italia, ovvio – hanno ‘senso’ e provenire da queste nazioni permette ad un prodotto di posizionarsi in fasce premium e spuntare anche prezzi premium, se ci avviciniamo a qualcosa di tecnologico o a qualsiasi altro segmento d’offerta o concetto legato ad un prodotto, è naturale che ci vengano in mente luoghi d’elezione. Ecco, con la stessa logica un prodotto venduto in determinati punti retail, in negozi particolari assume – o può assumere – di un valore percepito particolare. Non accade per magia, il lavoro da fare in termini di comunicazione e strategia è fine, ma niente è semplice, men che meno quando si parla di pulsioni umane, di logica sottomessa all’emozione, di cervello conquistato dal cuore. Perché le scelte d’acquisto spesso non sono logiche.
Ed è qui che si chiude uno strano cerchio aperto la prima mattina in HOMI, una fiera dedicata al retail, dove ho partecipato ad una serie di eventi con designer ed architetti che si sono occupati e si occupano di disegnare e realizzare esperienze ed emozioni, non negozi. L’ultima, la più spettacolare e curiosa affermazione, condivisa ed adorata da molti è l’idea che il negozio, il retail non deve assolutamente vendere, non è un posto fatto per vendere – oggi – ma un luogo creato per incantare ed ammaliare, per ridefinire il prodotto aumentandolo con un intangibile emozionale assolutamente unico. Sembra assurdo, ma se ci pensiamo con attenzione assurdo non è. Molto di quello che possiamo trovare nella distribuzione ‘fisica’ è acquistabile per canali online, con livelli di comodità e facilità, nonché di servizio in alcuni casi ineguagliati. Quindi perché? Perché il negozio?
Perchè alla fine – forse – il negozio è la tana del Bianconiglio, il passaggio per un ‘Altroquando’ (Dylan Dog, tanto tempo fa!), un luogo che può essere magico per tutti e cinque i sensi. E l’emozione di vedere gli interni di un luogo incredibile ed i sogni che contiene, con il naso attaccato al vetro, per quello non c’è prezzo o Metaverso che tenga.

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Alessandro Lorenzelli